A cura di Lorenzo Pauri ✍🏻
Negli ultimi giorni ho letto due libri che avevano la morte come protagonista. Non è strano che la morte torni così tanto in questi giorni della mia vita? Coincidenze?
Mi son detta: “Quanto è facile morire? Basta cadere dalle scale e battere la testa”.
Neanche il tempo di dare una forma a questi pensieri che Susanna si tuffò in qualche reel di Instagram e notizie rapide. Scorrendo i post si soffermò su uno in particolare: uno studio sosteneva che, se due sconosciuti durante il primo appuntamento avessero risposto a 36 domande in 45 minuti, avrebbero avuto maggiori possibilità di innamorarsi…Iniziò a leggere le domande e si concentrò su una in particolare: “Di tutte le persone della tua famiglia, quale morte ti sconvolgerebbe di più? Perché?”. La morte, di nuovo, era tornata nei suoi pensieri, ma cosa voleva dirle? Cosa significava? Susanna non credeva nei segni, però quello l’aveva confusa. Poi la mente si perse di nuovo, si bloccò, e un pensiero la assalì: il colloquio. Tra qualche giorno avrebbe incontrato il dirigente di un’azienda per un posto a cui ambiva da sempre, e la paura di non essere all’altezza, di confondersi, di non riuscire a fare colpo la terrorizzava. Il pensiero che ci fosse qualcuno meglio di lei, di non riuscire a trasmettere che quello era il suo posto da sempre, la portava in un circolo di pensieri senza fine. Lamentarsi con gli amici l’aiutava, ma poco: nessuno sembrava comprendere quanto valesse quel posto per lei. Le serie tv e i film? Non le bastavano più. Ascoltare la musica? Un po’ la calmava, ma niente di che. Mangiare a sproposito? La faceva sentire in colpa. Leggere? La sua testa andava più forte delle righe. Le canne? La facevano star peggio. Andare a correre? In palestra? Meditare? Guardare YouTube fino allo sfinimento? No. Quindi che fare? Impazzire fino al colloquio sarebbe stato insostenibile. Ritornò nella stanza, prestò attenzione al podcast che teneva in sottofondo. Parlava di un racconto: un bambino ossessionato dalla morte così tanto da non aver più paura delle piccole delusioni della vita, perché sapeva che prima o poi sarebbe finito due metri sottoterra, e tutte quelle preoccupazioni che lo stressavano ora gli scivolavano addosso. Più quel bambino cresceva, più Susanna scivolava via da quei pensieri per ascoltarlo.
Il bambino era diventato un ragazzo.
Era convinto che avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per diventare chi voleva, e anche se non ce l’avesse fatta, sarebbe finito come tutti… A cosa serviva preoccuparsi? Era chiaro per il ragazzo che questa non fosse una scusa per oziare tutti i giorni, ma gli permetteva di attenuare le ansie quotidiane. Sapeva che, se avesse dato il massimo e avesse fatto il suo, tutto il resto l’avrebbe schiacciato: la meraviglia, la vita. Anche se avesse dovuto stringere i denti lei, la morte, lo avrebbe sempre accompagnato.
Quel discorso piano piano si dissolse nella testa di Susanna, che inizio a pensare: “Come si fa a vivere con la morte sempre affianco? Non si rischia di perdersi nell’edonismo?” Allo stesso tempo però, aveva davvero senso preoccuparsi, studiare per raggiungere un sogno? Ma che sogno? E quando l’aveva fatto? Da bambina voleva diventare un’architetta futurista, e ora era architetta. Ma era davvero in sé da bambina? E se anche lo fosse stata, le sue idee, i suoi pensieri erano cambiati. Le piaceva davvero? E se anche non le fosse piaciuto, alla fine non si torna tutti a casa la sera? Che il lavoro ti piaccia o meno, alla fine devi vivere; e per cosa? Chi ha detto che per sentirsi realizzati bisogna raggiungere importanti vette lavorative o creare la famiglia perfetta? Chi ha detto che non ci si possa sentire realizzati solo andando a dormire tranquilli la sera o bevendo una birra con gli amici? Susanna continua a chiedersi: “Tutti i soldi del mondo mi cambieranno? Sì, potrò godere di vantaggi, non dovrò arrivare a fatica a fine mese e comprarmi ciò che voglio, ma poi? Quando l’ebrezza per queste cose finirà? Quando tutto mi apparirà normale? E anche quando farò il lavoro dei miei sogni? Forse a un certo punto mi stuferò, e vorrò altro dalla vita. Avrò comunque delle crisi, delle rinascite, delle sconfitte, delle vittorie, e allora a cosa serve tutto questo?”. E mentre era all’apice di tutti questi pensieri, cadde esausta sul divano; rise e pensò ad una frase sentita dall’agente K in “Man in Black 3”: “Mio nonno diceva sempre che se hai un problema che non riesci a risolvere, è meglio uscire dalla tua testa: quindi va a mangiare una crostata”.
Era estate, era sera, più precisamente erano le 21:00. I negozi erano chiusi, e la luce stava svanendo. E se a quell’ora del 19 giugno foste passati in quella via di Bologna, e vi foste affacciati su quella vetrina di quel bar ancora aperto, avreste visto una deliziosa ragazza, con un vestito leggero e i capelli sciolti, che mangiava una crostata. E vi giuro, non sareste stati più gli stessi.