RESTAURO/ STREET WEAR

INTERVISTA 1. PRTC X MICHELE MATERAZZO

INTERVISTA 1.  PRTC X MICHELE MATERAZZO

A CURA DI LORENZO PAURI ✍🏻

Grandi vetrate, una distesa di legno tra cose in restauro e cose restaurate. I sampietrini ci conducono piano piano da Michele, cosparsi di truciolato e odore ligneo.

 

Eccoci qui, in Via Porta di Castello 5/D,

davanti alla bottega. Michele Materazzo ci accoglie con una stretta di mano e un sorriso. “Son mestieri particolari… son diventati mestieri di nicchia.”

 

Barba bianca, testa ovale, occhi saggi. Un vecchio stereo appoggiato a uno sgabello, per ascoltare la radio. Un altro appoggiato su uno scaffale, per la musica classica. “Quando sono spenti peró fanno la musica più bella” ci dirà poi il silenzio ritmato dagli strumenti sul legno, e da mani mosse da pensieri, idee, trasformazioni. Mani che, a forza di scandire l’eleganza, l’hanno trattenuta sui palmi e sulle dita.

 

Inizia l’intervista.

 

Se vuoi mi siedo su un pezzo di legno…

 

Sono nato a Ferrara nel 1961, 62 compiuti.

 

Segno zodiacale? Toro

 

Colore preferito? Verde

 

Perché hai scelto di fare questo lavoro? In realtà è successo per caso. Avevo fatto il liceo scientifico, poi un tentativo all’università. Stavo senza far niente, fino a quando dei parenti iniziarono a restaurare il portone antico di casa. Quella cosa mi ispirò e istintivamente, da autodidatta, li aiutai. Mi piacque e iniziai a pensare: “Perché non pensare a questa cosa iniziata per gioco non come a una possibile attività?” Era il 1987, mi informai un po’ su questo settore comprando tutti i libri possibili e immaginabili; andai in giro dai falegnami e dai venditori di legno a chiedere consigli; così iniziai i primi lavori remunerati. Da allora sono andato sempre avanti da autodidatta. Nel frattempo, avevo compiuto 30 anni ed ero fuori target per entrare nelle scuole di restauro. Mi diedi da fare: passo dopo passo iniziavo a sentirmi pronto (troppo perché non lo si è mai) e allora ho cercato un posto. Trovai questo luogo, dove tutt’ora lavoro e così cominciai ufficialmente la mia attività, nel 1997.

 

Consiglieresti questo lavoro alle nuove generazioni? Ahimè sono almeno dieci anni che il mercato dell’antiquariato è in calo di domanda e di quotazioni dei pezzi. Quando abbiamo iniziato c’era un mercato antiquario florido. Ora a chi esce dall’Accademia di Belle Arti specializzata in restauro conviene aggregarsi alle grandi ditte che ci sono in città, le quali intervengono su beni tutelati.

 

Cosa pensi sia successo? Una questione di cambio di gusto. Magari tra dieci anni questa curva si rialzerà: non mi va neanche di dar la colpa in modo semplicistico alle ‘super ditte’, anche se un contributo l’hanno dato. Trovo che adesso ci sia un appiattimento del gusto completo: chi ha i soldi tende a spenderli per una cucina da 20/30.000 € se non di più.  Alla fine, però le case sembrano uscite dalla pagina di un catalogo: tutte uguali, tutto quanto moderno e nello stesso stile. Non c’è il gusto necessario per osare nell’accostamento tra una cosa vecchia a una nuova. Un’omologazione del gusto desolante. Mettere in piedi un’attività di restauro ligneo oggi non è commercialmente una scelta giusta.

 

Pensi che si sia perso il valore delle cose?

Io credo che quello che faccio non debba essere perduto. Si perderebbe un pezzo di arte e cultura. È quel settore di confine tra artigianato e arte. Non sei né il tecnico del restauro con il camice bianco in senso stretto, né il falegname dell'industria con le presse. Dobbiamo padroneggiare le tecniche dell’ebanisteria, e al tempo stesso avere la conoscenza scientifica, tecnologica e l'approccio culturale più conservativo possibile. Ogni mobile deve essere riportato in vita nel rispetto dell'identità e della storia di quel mobile, del suo stile. Non posso sovrapporre un'altra cosa, un'altra testa.

 

Cosa provi mentre lavori il legno? È sempre una cosa bella. È una sfida. Certe cose complesse ti stressano perché devi pensarci bene prima, essere attento quando le fai. Questo ti fa acquisire una sensibilità. Devi creare il vuoto mentale, togliendo dalla testa i pensieri e stando concentrato con levità sulla cosa che fai.

 

 

Che tipo di legno preferisci? I legni da frutto più sono strani e rari e meglio è. Il prugno, l’albicocco, le cose poco usate. Forse il pero.

 

Se il te stesso da bambino ti guardasse adesso sarebbe fiero di te? Penso di sì. Ho dato voce e mano a una parte di me che c'era, che c'è sempre stata, anche se quando ero ragazzo non mi sarei mai visto fare una cosa del genere. Il nostro è un mestiere in cui ci vuole passione, ma anche una componente di gioco. Non è un lavoro meccanico, perché ogni manufatto ligneo è una storia a sé.  È una sfida. Ogni pezzo di legno è differente, non solo perché è stato fatto a mano, ma anche perché ha trascorso gli anni in un modo suo. Devi prendere quell'oggetto, studiarlo, guardarlo e decidere cosa fare. Devi provare per tentativi, finché non trovi la via giusta.

 

Che cosa diresti al te che ha iniziato a fare il Restauratore? In primis, mi congratulerei con me stesso per l'incoscienza con cui ho iniziato. Avevo 29 anni e sono partito come uno schiacciasassi. Mi ammalerei dopo due mesi se non continuassi a fare quello che faccio, perché non posso rinunciare alla mia dose di creatività e di libertà. Essere il capo di te stesso significa stare qua dieci ore al giorno, però sono libero di scegliere e sono io che mi do i ritmi. È come una pianta che deve stare alla luce o all'ombra: se la metti nel posto sbagliato appassisce e si intristisce in fretta. Nella società di oggi è un problema.

 

Nelle commissioni hai spazio creativo o devi seguire gli ordini del cliente? Sono io che faccio un'analisi del pezzo, un po’ come un medico. Io vengo in casa, faccio un sopralluogo e faccio diagnosi, prognosi: un esame visivo e manuale.

 

Cosa ti ha spinto a partecipare al progetto di Portici? Mi ha colpito l’entusiasmo dei suoi promotori. La loro ottica, questa logica di riuso e riciclo; l'attenzione alle cose artigianali, tradizionali, vive. Non alla tradizione ammuffita e imbalsamata. La mia bottega è un'attività molto di nicchia, tuttavia se può essere utile per altri come vetrina, o può far vivere altre idee e progetti che si muovono, ma che non hanno una loro sede, ne sono orgoglioso. Penso che possa essere una rete, un circuito virtuoso.

 

“I giovani non hanno voglia di fare nulla”, che ne pensi? Non è vero. Non è facile trovare le condizioni per correre qualche rischio in più. Per fare qualcosa che ti piace. Viviamo in una società così complicata: la vita in città costa tanto; quindi, capisco che certi preferiscono trovare soluzioni più coperte, ma ciò non significa che non abbiano voglia di fare. Adesso un giovane che ha un'idea e vuole iniziare un'attività sua si carica di un sacco di spese. Non credo che i giovani siano addormentati, narcotizzati al punto di essere solo degli zombie. Quando ero più giovane c'era la fetta dei creativi e quelli un po’ più timorosi, come ci sono oggi. Certo che su alcune cose non è facile oggi. Non è facile.

 

Se ti dovessi descrivere in tre aggettivi? Lento, a volte pesante e creativo.

 

L’intervista finì sfumandosi tra chiacchiere, risate e qualche storia personale e simpatica sui suoi lavori. Eravamo bambini in un mondo di legno… in un mondo di oggetti a metà che facevano sognare a pieno, facevano divertire, incuriosivano su cosa sarebbero diventati, su dove sarebbero stati collocati.

Uscimmo dalla bottega com’eravamo entrati ma con una luce diversa negli occhi, eravamo stati in un posto che nella sua normalità, aveva trovato una delle tante chiavi della vita… la pace. Lì capii le parole di Hermann Esse in “Narciso e Boccadoro”: C’è la pace, ma non una pace che alberghi durevolmente in noi e non ci abbandoni più. C’è solo una pace che si conquista continuamente con lotte senza tregua, e tale conquista dev’essere rinnovata giorno per giorno.

E ogni qualvolta che un pensiero si tramuta in forma… credo che lì passi l’arte.

 

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